de Giannella Bellu.
“Tumbu Tumbu”, il primo respiro: chin su tempus, unu da-e criadura diventat omine. Col tempo, si diventa uomini.
Sto leggendo “Sos Sinnos”, il libro di Michelangelo Pira. Nonostante sia stato scritto in sardo, ho iniziato a leggerlo in italiano poiché, mio malgrado, faccio parte di quella schiera di sardi italianizzati. Penso e mi esprimo in italiano, è sempre stato così, dall’inizio. Da-e s’incominzu, da-e su primu tumbu.
“Tumbu tumbu”… Mi piace questo suono, “tumbu tumbu”, il primo respiro. Perché “tumbu tumbu” est s’incominzu, s’incominzu de totu. È l’inizio di tutto. Ma alla lettura in italiano sembrava mancare qualcosa, mi sembrava… “Cos’è accaduto?” mi sono domandata, e di tanto in tanto rivolgevo lo sguardo alla pagina scritta in sardo, sembrava piacermi di più. “Non è possibile, mi è accaduto qualcosa” senza tuttavia capire cosa, finché mi sono detta: “E’ nato in sardo e in sardo va letto”. Ma sempre qualcosa non tornava.
Cosa fare? Ho chiuso il libro e riaperto, senza dargli peso però o importanza, tentando di cogliere ciò che in quel momento era, senza ragioni, logica o cose, solo abbandonandomi e mi sono ritrovata “A sa Libra”. Meraviglia delle meraviglie la lettura si svolgeva in sardo e a voce alta. “Aiutatemi”, avrei voluto urlare, “mi sembra quasi di sentire una musica, aiutatemi”, e ora vi dico, se avessi potuto, io se avessi potuto queste parole le avrei scritte in bitichese, tanto questa buona voce di Michelangelo Pira mi è entrata dentro, m’est lassende sinnos. Mi sta lasciando segni.
Subito è tornato alla memoria “Mio zio il giaguaro” del brasiliano Ghimarau Rosa. Perché? Mah! Forse per lo stesso modo di scrivere, no! non è vero, di raccontare, perché a volte, entrambi, sembrano parlare da soli, con loro stessi, tentando di liberare, e calmare anche, quello che muove dentro, il profondo intendo, l’intimo, che è talmente tuo da non essere di nessuno, ma solo essendo se stessi si può riuscire nell’intento, solo aprendosi, anche se subito dopo ci si pente e ognuno a se stesso confessa: “Eo so’ maccu!”, “Io son pazzo!”, ebbene, io allora vi dico che in quell’istante, sempre qualcuno al nostro fianco dovrebbe essere per poterci destare e urlare: “No! Tue ses viu”. Tu sei vivo!
Non è unicamente questo, sento una specie di rivolta, come di farsi spazio, luogo e stanze in questo mondo, di aprire porte e camminare, di conoscere e sperimentare. E mentre leggevo “Sas cramatas de sos mortos” ho rivisitato le poesie di “Spoon Rivers” perché anche Lee Master ha riportato in vita uomini, perché si è chiesto:
The weak of will, the strong of arm, the clown, the boozer, the fighter?
All, all, are sleeping on the hill.
One passed in a fever,
One was burned in a mine,
One was killed in a brawl,
One died in a jail,
One fell from a bridge toiling for children and wife
All, all are sleeping, sleeping, sleeping on the hill. (…)
il debole di volontà, il forte di braccia, il clown, l’ubriaco, l’arrabbiato?
Tutti, tutti stanno dormendo sulla collina.
Uno trapassò nella febbre,
uno fu bruciato in miniera,
uno ucciso in una rissa,
uno morì in una prigione,
uno cadde dal ponte lavorando per i figli e per la moglie
tutti, tutti stanno dormendo, dormendo, dormendo sulla collina (…)
Master ha destato George Gray, Minerva Jones, William e Emily e lo ha fatto allo stesso modo di Pira e cioè ricordando quello che sono stati quando ancora erano in vita e soprattutto raccontandoci, alla maniera di George Gray, che:
To put meaning in one’s life may end in madness,
but life without meaning is the torture
or restlessness and vague destre
it is a boat longing for the sea and yet afraid.
Dare un significato alla vita può gettare nella follia,
ma la vita senza senso è la tortura
o inquietudine e desiderio vago
è una nave che tende al mare e pur lo teme.
Da ultimo sono state le pagine di “La penombra che abbiamo attraversato”, di Lalla Romano a non concedere tregua, a privarmi di pace e a confondermi perché un giorno anche la Romano tornò nella sua terra mossa dal desiderio di capire chi era e si riscoprì come quando era bambina e dunque sempre la stessa.
“Sono uscita nella strada davanti all’albergo, e ho sentito l’aria. L’aria mi può bastare. È la mia aria. (…) Non è mai esaurito il mio bisogno di quell’aria. Io la penso di lontano, e mi nutre. Mi tormenta, anche: per qualcosa di irraggiungibile, ma anche di fatale. Essa è per me il passato: tutto quello che è avvenuto. Per me è anche ‘Loro’. In loro sono compresa io. La conoscenza di loro e di me, come non era veramente distinta allora, tanto meno lo è adesso”.
“… Un’aria tormentosa”, diceva Umberto Saba, “l’aria natia”. Ma Bachis Pinna o Bacchisio Penna come qualcuno, si racconta, ha voluto appellarlo, non era tormentato perché Bitti, unicamente Bitti era, e lì si compiva, il suo destino, ma Miliunu, Milianu sì che lo era tormentato.
Quanti giorni ho dedicato al pensiero di Saba, quanti! Non riuscivo a capirne la ragione, perché, mi domandavo, è tormentosa e allo stesso tempo non se ne può fare a meno dell’aria natia, perché? Finché un giorno, all’improvviso, poiché all’improvviso e senza neppure avvedersene si comprendono le cose, “forse perché è in grado di ricordarci che ci siamo”, mi sono detta. Ma questi sono i miei pensieri, della testa che gira, “chi est orar de contu”, è l’ora del racconto, perché i libri da sempre, da-e su primu tumbu, dall’inizio, mi fanno quest’effetto, mi conducono altrove e da tutte le parti.
“Tutto ritorna” ha scritto qualcuno, ma non so chi, non lo ricordo, in me c’è di tutto e non c’è niente e ora, per di più, io non capisco. Neppure a farlo apposta, stamattina, nei pressi dell’edicola, c’era una signora e non appena l’ho veduta e sentita parlare si è schiarito il mio cielo.
“De inue sezis?”
“De Bithi”
“ A l’ischides chi so leggende in bitichesu?”
“E ite ses leggende?”
˝Sos Sinnos de Michelangelo Pira˝
“Sos sinnos sun cussos chi ‘achimus a sas erbeches e a sar vaccas ma jeo no nd’isco ite hat cherfidu narrere Michelangelo Pira chin sos sinnos suos”
“Di dove siete?”
“Di Bitti”
“Sapete che sto leggendo in bitichese?”
“E cosa stai leggendo?”
“Sos Sinnos di Michelangelo Pira”
“Sos sinnos, i segni, son quelli che facciamo alle pecore e alle vacche, ma io non so cosa ha voluto dire Michelangelo Pira con i suoi sinnos”.
Dopo mi ha domandato chi ero, fiza ‘e chie so’, di chi ero figlia, forse conosce mio padre. Ha detto grazie, arrivederci ed è andata via.
E ora…, ora se avessi potuto a questa buona donna avrei voluto dire: “Sinnos sun cussos chi m’est lassende custu liberu, e sun comente un’ispezia de iscalmentu”, “Sinnos son quelli che mi sta lasciando questo libro, e sono una specie di marchio”.
Ho raccontato ogni cosa a mia madre e dopo ho aggiunto: “Se avessi potuto, ma’, i pensieri che sento li avrei scritti in bitichese…”. “Ellà tue de Bitti sese?’’, “Perché, tu di Bitti sei?” mi ha risposto.
Ora ho ripreso il libro dalla prima pagina, dall’inizio, da-e s’incominzu, da-e su primu tumbu, e nel profondo capisco che: “sas manos sun sas primas e sas urtimas paraulas”, “le mani sono le prime e le ultime parole”, ora lo so, “ca prima l’ischia e no l’ischia ma est sa paraula ischire chi no andat bene”, “perché prima lo sapevo e non lo sapevo ma è la parola sapere che non va bene”. Adesso sì, ora comprendo che significa quando qualcuno ti porge la mano oppure no. La mano racconta cose, tutte insieme e soprattutto racconta la verità.
E può essere pure l’ultima di parola…
“Est benzende in carrocinu Barore a mi che gighere a su Pal’Astrintu”, “Sta venendo Barore con il carro per portarmi a Pal’astrintu, il cimitero” ha annunciato qualche giorno fa la mia nonna materna; lo ha detto perché pensava di essere in punto di morte. Mi teneva la mano in silenzio, forse ero io a tenerle la mano, no, io parlavo e parlavo, tentavo di destarla da una specie di delirio, che a noi tutti, persino a lei, sembrava la morte.
Sono come spossata ora, avvolta da una specie di torpore, di nebbiolina, e solo ora e per intero capisco da qualche parte in me, nei miei segreti intendo, le parole di Michelangelo Pira quando ci racconta di suo padre e più di tutto quando ricorda che in noi tutti sono presenti due anime e due lingue insieme.
“’Ipo nande de babbu comente mi l’ammento in italianu contat e contat comente mi l’ammento in sardu. Mancari isse haeret faeddatu semper in sardu. Contatu ebbìa in italianu non paret mancu isse, ma si lu conto ebbìa in sardu, so jeo chi mi manco a mie matessi nessi de unu latus de su chi so.”.
Solo ora dentro di me comprendo l’urgenza, il necessario utilizzo da parte mia di entrambe le lingue. Mi sembra quasi di aver colmato una mancanza.
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